Chi è Peppe Poeta, il nuovo allenatore dell’Olimpia Milano e successore di Ettore Messina

Articolo di Aldo Seghedoni

La carriera da coach non era nei suoi piani. E invece...

La storia di Peppe Poeta inizia in una piccola città del Sud, Battipaglia, paese di cinquantamila abitanti dove negli anni Novanta la pallacanestro era più che uno sport, era uno dei pochi modi per sognare.

Chi cresceva lì viveva le giornate tra playground, giochi della gioventù e campi improvvisati. Anche lui veniva da una famiglia solida, con genitori presenti, insegnanti di vita prima che di scuola. Quei valori gli sono rimasti addosso più di qualsiasi vittoria.

Il basket entrò nella sua vita come tutto il resto: con naturalezza. Mentre provava calcio, tennis, nuoto, continuava a tornare su quei campi all’aperto dove si giocava con i più grandi, sviluppando presto una certa “sopravvivenza sportiva”. A dieci anni arrivò a Salerno per la C1. Non aveva il fisico del ruolo, era magro, piccolo, uno che non avrebbe fatto pensare a una carriera. Per lui però contava solo godersi ogni istante.

A quindici anni giocava già in B2. Andava al liceo, faceva il rappresentante d’istituto, stava in mezzo alla gente con facilità. La sua qualità più forte era la tolleranza, una forma di apertura che nello sport funziona come colla. E infatti in nazionale, anni dopo, lo avrebbero definito proprio così: un “glue guy”.

La sua carriera proseguì senza frenesia. Dalla C2 alla B1, poi la svolta: una partita da 51 punti lo mise finalmente sotto i riflettori. Da lì arrivarono Teramo, la Serie A, la nazionale, la Virtus Bologna, l’Eurolega. Non smise mai di vivere le tappe senza pensare troppo al futuro. A trent’anni un infortunio lungo un anno gli impose uno stop, ma non lo fermò. Ripartì da zero, di nuovo, tra Trento, Torino, Reggio Emilia e Cremona.

La valigia era sempre pronta, eppure lui non parlava mai di sacrifici. Aveva sempre scelto il campo al posto del cinema, gli allenamenti al posto delle uscite. Per lui non era rinuncia, era la vita che voleva.

Guardando tutto dall’esterno, la sua soddisfazione più grande rimane la nazionale: 120 presenze, una delle prime venti di sempre. Un traguardo che lui stesso faticherebbe a riconoscersi, tanto grande da sembrare quasi di un altro.

La carriera da allenatore non era nei suoi piani. Pensava alla dirigenza, al mondo manageriale, e invece gli allenatori che aveva avuto vedevano in lui una lettura del gioco rara. Poi arrivarono le telefonate inaspettate: Messina da un lato, Pozzecco dall’altro. Entrambi lo volevano al loro fianco. L’idea di rimettersi in viaggio non lo convinceva, ma alla fine scelse la strada nuova. Partì e scoprì che sì, l’adrenalina c’era ancora. Il resto è storia recente.

“Ho fatto due anni da assistente e ho provato ad attingere il più possibile dall’eccellenza, sia da Milano che dalla Nazionale, però fare il capo allenatore è un altro sport, fai una full immersion. L’ho vissuta sereno, me la sono goduta, grazie all’ambiente Brescia che mi ha supportato e mi ha dato fiducia, grazie ai ragazzi che mi hanno dato veramente tanto sia dentro che fuori dal campo”, ha detto pochi mesi fa nel podcast Trash Talk.

 

Gli dicono tutti che è troppo elegante ma lui non crede sia vero. Ha sempre avuto una grande attrazione per la NBA ma l’altezza non l’ha mai supportato e così ha dovuto ben preso riporre il sogno nel cassetto di diventare un giocatore di basket professionista. Ma non considera che scrivere sia un ripiego, tutt’altro.

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