Tre anni fa l’addio a Sinisa Mihajlovic, le commoventi parole dei familiari e di Roberto Mancini

Articolo di Aldo Seghedoni

Da tempo malato di leucemia, fino a settembre del 2022 aveva occupato il ruolo di allenatore del Bologna.

Tre anni fa, il 16 dicembre del 2022, Sinisa Mihajlovic si è spento, in una clinica di Roma, all’età di 53 anni. Da tempo malato di leucemia, fino a settembre dello stesso anno aveva occupato il ruolo di allenatore del Bologna: in precedenza era stato calciatore di altissimo livello e tecnico di numerose altre compagini. A dare il triste annuncio era stata la sua famiglia: “La moglie Arianna, con i figli Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, la nipotina Violante, la mamma Vikyorija e il fratello Drazen, nel dolore comunicano la morte ingiusta e prematura del marito, padre, figlio e fratello esemplare, Sinisa Mihajlovic”.

“Uomo unico professionista straordinario, disponibile e buono con tutti – si leggeva ancora nella nota diramata dai Mihajlovic in una giornata così tremenda -. Coraggiosamente ha lottato contro una orribile malattia. Ringraziamo i medici e le infermiere che lo hanno seguito in questi anni, con amore e rispetto, in particolare la dottoressa Francesca Bonifazi, il dottor Antonio Curti, il professor Alessandro Rambaldi, e il dottor Luca Marchetti. Sinisa resterà sempre con noi. Vivo con tutto l’amore che ci ha regalato”. Mihajlovic era nato a Vukovar, a quei tempi in Jugoslavia, il 20 febbraio del 1969.

Roberto Mancini, che tre anni fa era il commissario tecnico della Nazionale, lo aveva ricordato con parole molto toccanti. “Non ho più un fratello – aveva sottolineato in una lettera aperta pubblicata dalla Gazzetta dello Sport -. Anche se di questo legame di sangue a volte ormai si abusa, nel parlare di amicizie, non mi sento di esagerare nel definirlo così: per me Sinisa lo era davvero, perché è stata la vita a renderci tali. Prima il calcio, e poi la vita. Questo è un giorno che non avrei mai voluto vivere. Penso solo a quanto sia ingiusto che una malattia così atroce si sia portata via un ragazzo di 53 anni, un uomo buono, una persona perbene”.

“È difficile trovare altre parole quando è passato così poco tempo dall’attimo in cui mi sono detto: ‘Roberto, stavolta davvero non potrai più vederlo’ – aveva aggiunto -. Ieri non c’era già più: l’ultima volta che mi ha parlato non solo con quegli occhi che sapevano dire più delle parole, occhi che a volte ti costringevano ad abbassare i tuoi, è stato martedì mattina. Me la porterò dentro per sempre quella chiacchierata: cose nostre come ce ne siamo dette tante, in quasi trent’anni. Sono stati ventotto, per la precisione. Compagni di squadra e di panchina, sempre di spogliatoio perché anche, forse soprattutto, lì dentro ci siamo conosciuti fino a piacerci, a capirci, a litigare, comunque a diventare spalla uno per l’altro, quando per l’uno o per l’altro diventava necessario”.

“Ventotto anni di calcio e di vita: ho visto crescere il calciatore e il leader che chiunque sa di calcio avrebbe voluto nella sua squadra. Ho visto come punizioni straordinarie possono diventare perfette, ‘impossibili’, perché davvero io non ho mai visto nessuno calciarle come lui, per me era senza dubbio il migliore del mondo. Ho visto nascere l’allenatore che sarebbe diventato e anche i suoi figli, la gioia nel diventare padre e l’orgoglio, anche la paura, di guardarli crescere, perché certe nostre strade si sono intrecciate sempre di più. Quasi fosse inevitabile, ad un certo punto” aveva concluso Mancini.

Gli dicono tutti che è troppo elegante ma lui non crede sia vero. Ha sempre avuto una grande attrazione per la NBA ma l’altezza non l’ha mai supportato e così ha dovuto ben preso riporre il sogno nel cassetto di diventare un giocatore di basket professionista. Ma non considera che scrivere sia un ripiego, tutt’altro.

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