Ray Giubilo, talento e non solo: “Servono le basi per una buona immagine”

Articolo di Mauro Corno

Il fotografo italo-australiano ha presentato il suo nuovo splendido volume: Flying Racquets. Sportal.it lo ha intervistato.

Ray Giubilo ha presentato il suo nuovo splendido volume, si intitola Flying Raquets ed è dedicato a due mondi che conosce perfettamente: quello della fotografia, di cui è un quotatissimo esponente, e quello del tennis, che gli ha permesso di scattare immagini iconiche, come quella celeberrima a Jasmine Paolini. A Torino Sportal.it lo ha intervistato in esclusiva.

Quanto è stato importante iniziare quando la tecnologia non era così avanzata?
M’ha aiutato moltissimo. Era molto più difficile all’epoca. Non potevi vedere subito il risultato del tuo lavoro, quindi dovevi essere estremamente preciso con l’esposizione. Non potevi semplicemente scattare e poi correggere: se la foto era sbagliata, era persa.

Niente “strip test” come oggi?
Esatto. Il “strip test”, cioè fare qualche scatto di prova per vedere la resa prima di continuare, era un lusso. Nel tennis non c’è nemmeno il tempo per farlo. Con l’analogico dovevi avere occhio e tecnica. Crescere con quella mentalità ti forma. Ti abitua a capire davvero la luce, il tempo, l’inquadratura. Oggi col digitale puoi fare tanto, ma se non hai una base solida, non fai miracoli.

Quindi il talento si coltiva fin dall’inizio?
Sì, assolutamente. E poi 30 anni fa era tutto diverso: per un torneo avevo un budget di 100 euro, e significava 3.600 scatti per tutta la settimana. Oggi fai un torneo con 30.000 o 40.000 scatti. È un altro mondo.

Anche i tennisti sono cambiati?
Sì, è cambiato tutto. Il loro modo di giocare, ma anche il rapporto con i fotografi. Non sono più vanitosi, direi che sono più diffidenti. Fino agli anni ’90 c’era più fiducia. Le foto “scoop” le facevano solo le grandi agenzie o i quotidiani importanti. I giocatori ti conoscevano, c’era un rapporto personale. Ora c’è l’entourage, che fa da barriera.

Conosce comunque tanti giocatori, giusto?
Sì, ma li conosco più dal campo che di persona. Li osservo, li ascolto, capisco chi sono vedendoli reagire, arrabbiarsi, esultare. Non serve per forza conoscerli faccia a faccia.

Difficile godersi le partite…
Sono molto concentrato sul lavoro. Se guardi la partita perdi lo scatto giusto. Sto quasi sempre su un giocatore, salvo quando sono in alto e riesco a fare scatti più ampi, tipo nel doppio. Tengo un occhio anche sul punteggio: capisci quando potrebbe arrivare un gesto forte, una reazione emotiva o un momento plastico.

Da oltre vent’anni Editor-in-Chief di Sportal.it si è laureato in Scienze Politiche alla Statale di Milano con una tesi su Georges Simenon. Ha scritto due libri su calciatori e allenatori italiani all’estero: Ai confini dell’impero e Nuovi confini dell’Impero. Da bimbo era certo che avrebbe giocato in serie A ma già in Seconda Categoria faticava.

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