Carlo Calcagni e una medaglia d’oro che pesa come un macigno

Articolo di Aldo Seghedoni

Il calvario del campione mondiale paralimpico è cominciato il 28 settembre di ventitré anni fa.

A Nuova Delhi, in India, Carlo Calcagni ha conquistato la medaglia d’oro nei 400 metri ai Campionati del Mondo di Atletica Paralimpica. Una vittoria che va ben oltre il valore sportivo: la sua è una medaglia che pesa come un macigno di sacrifici, dolore e resilienza.

Il Colonnello del Ruolo d’Onore dell’Esercito Italiano è vittima del Dovere, ferito e mutilato per servizio, a seguito della Missione Internazionale di Pace della NATO, sotto l’egida delle Nazioni Unite, in Bosnia-Erzegovina, in qualità di pilota di elicotteri impegnato nel più nobile dei servizi per la collettività, salvare vite umane.

La sua vita è cambiata drasticamente il 28 settembre 2002, quando a Padova ha subito il primo di una lunghissima serie di interventi chirurgici, al fegato. Quello che le cartelle cliniche definiscono “decorso clinico complesso”, lui lo chiama semplicemente: “il mio calvario”.

Le conseguenze dell’esposizione a contaminanti tossici e uranio impoverito durante la missione in Bosnia lo hanno segnato in modo irreversibile. A lui sono state diagnosticate patologie croniche e degenerative devastanti: fibrosi polmonare e insufficienza respiratoria, che lo costringono a correre con un solo polmone funzionante e legato costantemente all’ossigeno, anche durante gli allenamenti e le gare, cardiopatia da metalli pesanti, encefalite demielinizzante autoimmune cronico-degenerativa e irreversibile con sindrome atassica, polineuropatia sensitivo-autonomica, sindrome da affaticamento cronico (CFS/ME), fibromialgia, parkinsonismo secondario e, dal 2014, sclerosi multipla.

La vittoria di Nuova Delhi è stata dedicata al Presidente della FISPES, Salvatore Mariano, ma anche a tutto lo staff federale che supporta gli atleti paralimpici: “Il nostro è un gruppo affiatato, che ci permette di dare sempre il massimo con serenità e forza. Non siamo solo atleti, siamo una famiglia che condivide sacrifici e vittorie”.

Il pensiero più profondo è andato però alla sua vita privata: “La mia vera medaglia d’oro, la luce dei miei occhi e la forza che mi sostiene nei momenti più difficili, sono i miei figli: Francesca e Andrea. A loro dedico ogni traguardo, ogni respiro conquistato, ogni vittoria contro la malattia e contro le avversità della vita”.

Gli dicono tutti che è troppo elegante ma lui non crede sia vero. Ha sempre avuto una grande attrazione per la NBA ma l’altezza non l’ha mai supportato e così ha dovuto ben preso riporre il sogno nel cassetto di diventare un giocatore di basket professionista. Ma non considera che scrivere sia un ripiego, tutt’altro.

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