Inzaghi, il retroscena della finale di Atene

Filippo Inzaghi un’intervista alla Gazzetta dello Sport ha ripercorso la finale di Champions League del 2007 ad Atene.

“Mi ricordo il tunnel che porta al campo. Non finisce mai, ci vuole una vita per sbucare fuori. E poi gli spogliatoi, grandissimi. Ma credo che una finale di Champions amplifichi tutte le sensazioni… In realtà non mi piacciono gli impianti con la pista di atletica, mi piace sentire la gente addosso, ma per me è e resterà lo stadio più bello del mondo”. 

Le emozioni di quella notte: “L’invasione di campo di mio papà e mio fratello, il taglio della torta con Berlusconi, la coppa che ho portato dagli spogliatoi al pullman e… anche il rammarico per non averci dormito insieme. Beh, dormire in realtà è una parola grossa. La prima notte ho dovuto prendere un sonnifero e nelle successive dieci, giuro che non sto scherzando, non ho proprio dormito. Mi svegliavo di continuo pensando sempre di sognare. Poi vedevo sul comodino la targa vinta come miglior giocatore della partitaecapivo che era tutto vero. A quella targa tengo da morire: tempo fa mi hanno rubato in casa a Milano ed è stata la prima cosa che ho cercato. Potevano prendermi tutto, ma non quella. Per fortuna non l’avevano presa”. 

Non ci fu un vero ballottaggio con Gilardino: “In realtà il giorno prima Ancelotti mi prese da parte e mi disse: “Non ho dubbi, giochi tu”. Però non stavo bene, ero mezzo stirato e quindi avevo addosso una pressione enorme. Pensavo: se nella prima ora di gioco non riesco a combinare nulla, mi aspetta una sostituzione inevitabile”.

L’immancabile telefonata di Berlusconi: “Stavo pranzando, quando mi chiamarono altelefono. Era Berlusconi. Non ricordo con esattezza se mi pronosticò che avrei fatto due gol, o se mi fece promettere che li avrei fatti. So solo che successe. Pazzesco”.

I gol: “Il primo è stata fortuna. Il secondo credo sia l’emblema di tutta una carriera. Non ho mai esultato così, mai provato un’emozione del genere, sono stato a un passo dal piangere, ma non potevo perché bisognava ancora giocare”.

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