Compie 54 anni il “mio amico” Michael Jordan

Oggi, giorno del suo  54° compleanno, Micheal Jeffrey Jordan forse non festeggerà come l’anno scorso quando si recò alla sua ex università, North Carolina, per assistere una gara dei Tar Heel che ricordava il mitico allenatore Dean Smith. Il suo cruccio è provocato dalla caduta a sasso nell’ultimo mese degli Hornets, dove gioca Marco Belinelli. Rischiano  quest’anno di stare  fuori dai playoff quando tutti dopo la bella partenza di stagione, si attendevano un seguito dell’anno scorso . Ma c’è anche dell’altro. Oltre i problemi del club, di cui è presidente e socio di maggioranza della compagine azionaria, si era speso per organizzare il 66° All Stars Game a Charlotte, aveva ottenuto l’organizzazione del board della NBA,  presentato il logo ufficiale quando  al culmine delle proteste  per colpa dei retaggio di vecchie leggi  statali di stampo razziale e di genere, la vetrina annuale del Sogno Americano, che piace ai ragazzi , ai presidenti degli Stati Uniti, alle famiglie e al mondo dello spettacolo, passò a New Orleans.

M.J è venuto alla luce  il 17 febbraio del 1963, non so se anche allora di venerdì, in una New York che i grattacieli li vedeva in lontananza, Brooklyn,  e nella quale i ragazzini affollavano i playgrounds dove sono nati altri  famosi cestisti. I campetti in cemento e asfalto circondati dalla rete meallica sono ancor testimonianza della rivoluzione industriale, degli anni ruggenti e del new deal roosveltiano, quando le periferie raccoglievano la gente venuta dai campi  o da altri nazioni per lavorare in fabbrica.

Non parla però  mai volentieri di New York colui che il canale TV ESPN ha definito il campione del XX secolo,  ricco sfondato con un patrimonio di circa 1,31 miliardi di dollari (studio della rivista Forbes, nda)  derivante di successi, la popolarità e le enormi royalties delle vendite della  “Air Jordan”. La scarpa alata che l’azienda di Portland lanciò ai tempi in cui “His Highness”  raccoglieva i primi successi, appena uscito dall’Università dopo aver vinto la sua prima Olimpiade (1984 Los Angeles). E in tasca aveva già il contratto con i Bulls che diventarono per un decennio la squadra più forte al mondo. 

A fine estate dell’84 vinto l’oro con coach Bobby Knight venne in Italia per due esibizioni. Ero ad attenderlo all’aeroporto assieme ad altri colleghi e a Federico Buffa che allora era già la Bibbia del basket americano.  Non avevo particolare emozione perchè ero reduce da quei Giochi indimenticabili in cui un uomo spinto dai razzi scese dal cielo  in mezzo allo Stadio gremito per la Cerimonia di apertura. Ero  uno degli inviati della Gazzetta dello Sport e la mia base principale era il Felt Forum, dove si giocava il torneo di basket. Non c’era ancora il Dream Team, ma la squadra era inavvicinabile. Non riuscii a parlargli direttamente, ma tornai in Italia con una domanda  sulla punta della lingua.  Una domanda  per lui e il suo rabbioso coach che certamente sentendosi il Dio in terra non avrebbe gradito.

Seguii tutte le gare, ogni volta che Jordan comiciava a segnare, lo spettacolo s’illuminava. L’Orco di Indiana però  lo metteva in panchina e mi venne da scrivere nel taccuino: “chiedere se la cosa è dovuta alla necessità delle rotazioni per raggiungere il miglior amalgama di squadra, è un non voler infierire sugli avversari,  o è una strana fissa del coach”.  Uscito dai cancelli  della dogana di  Linate gli andammo incontro con il salone col gruppo di 5-6 colleghi. Non era prevista una conferenza stampa al centro di Milano, lo aspettava infatti lì vicino ai voli privati un elicottero messo a disposizione delle Nike Italiana di Reggio Emilia che l’avrebbe accompagnato per in giro di tre giorni a  Bormio e Trieste per due esibizioni e a Venezia per turismo. 

Feci la prima domanda, come se per me quella press-conference fosse familiare,  un seguito di quelle olimpiche. Tralasciai le  “questions” di rito, tipo “è la prima volta che vieni in Italia?, ti pace la cucina in Italia?, dove voi arrivare nel basket ?, gli chiesi a bruciapelo: “Micheal ti ho seguito al torneo olimpico, mi ha colpito vedere come ti trattava il tuo allenatore … Ti metteva in  panchina se segnavi due-tre canestri di fila.. Vuoi mai che fosse geloso di  e volesse tutto l’applauso per sè”. 

I suoi muscoli del collo s’irrigidirono spinse leggermente il capo all’indietro, il volto si fece severo, chiaramente era in posizione di difesa.. Vai, l’ho fatta grossa, mi dissi…Invece si aprì in un sorriso cordiale dicendomi: “Hei man.. Uomo questa è la più bella domanda che un giornalista mi abbia mai rivolto”. E tra la mia incredulità mi invitò a salire sull’elicottero. Ero imbarazzatissimo, anche perchè mio fratello gestiva per la Nike  quel transfer  per l’ospite speciale. Nessuno fiatò.. M’imbarcai senza bagaglio e senza lo spazzolino da denti. 

Furono tre giorni indimenticabili, non mancò il dramma quando su una schiacciata delle sue a Trieste  il tabellone in cristallo andò in  mille pezzi e una scheggia recise il tendine del polso del’uruguaiano Tato Lopez, punto di forza della Juve Caserta di Tanjevic e del ds Giancarlo Sarti. Grazie ai suoi riflessi eccezionali, Jordan  con un balzo  all’indietro schivò la pioggia di cristalli.  Il giorno dopo ripartimmo per Milano. Eravamo in vista di Linate, l’elicottero prese a scendere e mi chiese cosa fosse quel cantiere che aveva la forma di un’arena sportiva. Gli risposi che Milano aveva un bel palazzo dello Sport crollato per la neve e una squadra importante, l’Olimpia Milano,  dopo aver giocato una stagione in un tendone da circo stava aspettando  un’arena  come quelle americane che avrebbero chiamato Forum, come quello del suo oro olimpico. 

Per 5 minuti  scrutò l’opera che ancava ancora della copertura. Poi  ruppe il silenzio con una frase che non era di cortesia nè una promessa. “Forse un giorno giocherò là dentro”, disse . Pochi mesi prima nel draft era stato scelto come il n.3, colpiva la sua leggerezza, il dinamismo, la sua precisione, ma usciva dal college, per gli Usa era d’obbligo vincere l’Olimpiade, l’idea di un Dream Team con i migliori professionisti sarebbe arrivata 8 anni dopo a Barcellona.  Forse nemmeno lui avrebbe immaginato di diventare l’icona del basket, anzi una divintà. Seppi che pochi giorni di quel viaggio in Italia aveva posato per quella schiacciata a gambe aperte che sarebbe diventato un marchio famoso come la Coca Cola. E il suo marchio di fabbrica in campo.

A cura di ENRICO CAMPANA

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